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giovedì 29 gennaio 2009





Giusy

Il convitto delle infermiere dell’Ospedale San Carlo dava su via Arioli Venegoni da un lato e dall’altro verso i campi dove facevano le prove i carri armati della caserma Perrucchetti. All’inizio degli anni 70 era sovraffollato da allieve infermiere provenienti dalla Sardegna, dal Friuli e dal trentino, non si era ancora creata quella carenza cronica di personale che avrebbe portato poi flussi migratori di infermieri dalla Spagna o dal sud america. Le ragazze italiane erano contente di avere vitto, alloggio e istruzione in cambio di un “apprendistato” in corsie e reparti della durata di qualche anno, durante il quale ovviamente non venivano retribuite, ma solo assoggettate a normali orari, turni e ad un regime di clausura nel dopolavoro, rigidamente imposto dalle suore. L’impatto con la vita di una città come Milano anche se vista solo dalle finestre del convitto, unita ai normali pruriti di fanciulle ventenni ed ai racconti delle colleghe diplomate che godevano già di un regime di semilibertà creava una miscela esplosiva. Per accendere la miccia era sufficiente passare in auto sotto le finestre del convitto, aspettare che qualche ragazza apparisse alla finestra, salutare, scherzare e chiedere, sempre a gesti, il numero dell’interno di quel piano e la telefonata era fatta. Da li a scoprire in quale assurdo orario avessero diritto alle ore “ d’aria” e aspettarle all’ingresso era un gioco da ragazzi. Le voglie represse di queste giovinette sfociavano o in rapporti lesbici all’interno del convitto o in scorpacciate di sesso durante le brevi libertà. Nascevano così storie di sesso, d’amore, fidanzamenti, matrimoni, fughe. La differenza dei turni di riposo che esisteva fra le compagne di camera portava a volte ad uscire con entrambe le ospiti che tacitamente facevano finta di nulla. Solo dopo il secondo anno di internato avevano il permesso di uscire di sera quando erano di riposo, con orario di rientro tassativo a mezzanotte. Furono anni allegri, anche di scopate improvvisate, rubate nei ritagli di orario e consumate nel parcheggio dell’ospedale stesso. Conobbi così Giusy, ventenne, sarda, piccola, capelli nerissimi a caschetto, occhi neri, limpidi leggermente a mandorla, zigomi alti, denti bianchissimi e un corpicino molto appetibile. Si sarebbe potuta tranquillamente definire una bellezza esotica bonsai ma era tradita da un accento inconfondibile.. Mi piacque subito il suo modo di fare, timidissimo, ma che non riusciva a nascondere una sensualità spontanea e decisi quindi di conoscerla meglio. Uscii diverse volte e iniziai un corteggiamento discreto, se ne accorse subito, mi disse chiaramente che mi considerava solo un pericolo e che era molto prevenuta verso ragazzi come me che bazzicavano l’ospedale in cerca di avventure. Riaccompagnandola al convitto ci fermavamo abitualmente a chiacchierare in auto, ma era sufficiente il gesto di appoggiare un braccio sulla spalliera del suo sedile per allarmarla e vederla ritrarsi come un riccio, più mi sfuggiva più mi attraeva. Il tempo mi diede ragione e una sera riuscii a baciarla, avendo la conferma di quanto anche lei lo desiderasse e si lasciasse piacevolmente trasportare. Indossava esclusivamente jeans, magliette e ampi pullover che la facevano apparire ancor più minuta e facilitavano le mie carezze su una schiena liscia, morbida e che non era interrotta da tracce di reggiseno, vibrava sotto le mie mani e quando mi lasciò arrivare ad accarezzarle i seni li scoprii meravigliosamente sodi e con piccoli capezzoli che al passaggio della mia lingua reagivano rapidamente. Mi perdevo leccandole il ventre e venivo regolarmente fermato quando tentavo di slacciarle i jeans e scendere più giù, aveva voglia si capiva chiaramente ed infine una mattina me lo disse al telefono. Fu la prima di numerose telefonate erotiche. Mi confessò che quando rientrava in camera dopo i nostri incontri spesso era ancora eccitata e per addormentarsi era costretta a masturbarsi : quella volta compresi quanto le piacesse toccarsi e come desiderasse lasciarsi condurre dalla mia voce verso una masturbazione dall’altro capo del filo. Era vergine e non aveva nessuna intenzione di concedersi se non all’uomo che l’avrebbe sposata, la tranquillizzai al proposito rassicurandola che non avrei tentato di fare l’amore. Cambiò il suo comportamento e lasciò emergere la sua voglia di ricercare il piacere nel modo che meglio conosceva, masturbandosi. Lasciava che la mia mano si infilasse nelle sue mutandine ed iniziassi ad accarezzarla, poi la sua si insinuava sopra la mia e la manovrava masturbandosi con le mie dita, con i ritmi e le pause che consentivano di avere molti orgasmi in breve tempo. Mi chiedeva poi di raggiungere il mio piacere masturbandomi da solo mentre mi guardava e mi incitava a venirle sul seno. Mi raccontò che aveva scoperto questa sua passione voyeuristica stando in convitto ed avendo visto alcuni uomini che si masturbavano in auto sotto le finestre di alcune infermiere che, conoscendo il gioco, li provocavano con estemporanei spogliarelli al di là dei vetri. La nostra strana relazione durò con interruzioni varie per alcuni anni, anche dopo il mio matrimonio perchè la confidenza e l’intesa sessuale che avevano raggiunto, ci permetteva di farci vivi reciprocamente quando avevamo voglia di quel gioco particolare.

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