L'unica gratificazione per chi scrive un blog è avere lettori che lo seguono inviando commenti e cliccano su UNISCITI A QUESTO SITO per ricevere gli avvisi dei nuovi post.

martedì 27 gennaio 2009





Hiromi

I primi anni del liceo furono strampalati e divertenti. Eravamo come zingari in cerca di una sistemazione temporanea per le nostre aule. Vivevamo la gestazione di quello che poi diventò il Liceo Einstein, cambiavamo sede ogni anno, da Piazza Zavattari ospiti pomeridiani del Vittorio Veneto, passammo, nelle aule del Cottolengo. Si, il Don Orione di Caterina da Forlì e vi giuro che non ci faceva ridere dover spiegare alle ragazze che frequentavamo il liceo al Cottolengo, ma eravamo quasi normali. Infine approdammo negli umidi seminterrati dell’Umanitaria di via Pace, dove le aule erano dotate di vecchi banchi in legno con la ribaltina, cimeli recuperati da qualche scuola elementare demolita. Contrariamente alla struttura della scuola alcuni docenti erano veramente in gamba, come il professor Fabietti che ci affascinava con le sue lezioni di storia e filosofia, altri, come la supplente della prof. di italiano ti seppellivano nella noia e per evitare di addormentarci ci sbizzarrivamo nel fare cazzate. La più eclatante la combinò il rampollo di un noto architetto milanese. Lavorando per giorni e giorni con un temperino su un nodo nel legno della ribaltina del banco, riuscì a toglierlo, lasciando un bel buco tondo e liscio, guarda caso dello stesso diametro del suo pene a riposo. La mattina che il futuro architetto decise di vedere se riusciva a far passare il suo affare in quel buco per far ridere il resto della classe, successe il finimondo. Nascondendosi dietro una pila di libri riuscì nell’operazione, ma una volta infilato, giocherellando per meglio far apparire il funghetto nel prato di legno, raggiunse un certo livello di erezione, che quando la prof. lo chiamò alla cattedra per interrogarlo, gli impedì di alzarsi, obbligando la signorina a controllare la causa di quello strano comportamento. Lei quasi svenne, lui quando riuscì a far rientrare il funghetto nei pantaloni fu trascinato dal preside e sospeso per alcuni mesi
Agli inizi degli anni 60 a Milano vi fu un fiorire di "cantine", ritrovi privati ricavati in vecchi seminterrati o laboratori, affittati generalmente con contratti intestati a fratelli o prestanome maggiorenni e trasformati con il lavoro comune dei reali occupanti, in un incrocio tra una fumosa garconierre, una sala d’ascolto musicale e più di tutto una mini discoteca. Vi passavamo i sabati e domenica, ballando alla luce di candele, organizzando feste e stilando classifiche dei primati di conquista delle fanciulle che avevano frequentato il posto. Queste cantine diventavano in breve arcinote e richiestissime dai giovani milanesi al punto che si creavano assembramenti tali per poter entrare, che i vicini inviperiti chiamavano il 113 e il proprietario dei locali ci cacciava. Inevitabilmente il mio giovanile entusiasmo anarcoesistenzialista e la passione per dipingere, mi fece aprire una di questa cantine in via Ripamonti 193, riempiendola di miei quadri, oltre a mobili, divani e altri accessori acquistati dai frati di Caterina da Forlì. La cantina visse un periodo d’oro di un paio d’anni con la punta massima di notorietà durante l’inverno del 64, quando il tram che faceva il capolinea a poca distanza, la domenica pomeriggio era a volte pieno di ragazzi e ragazze che volevano entrare. Erano gli anni della grande sofferenza perché non avevo ancora la patente, del movimento studentesco, dell’eskimo e delle scazzottate in piazza San Babila con i fascistelli del bar Pedrinis.
La fine ingloriosa della mia cantina avvenne la notte di capodanno di quell’anno, quando l’intervento di numerose auto della polizia chiuse, fortunatamente senza conseguenze penali, quella che venne definita una discoteca non autorizzata. I due anni erano bastati però a collezionare una bella serie di fortunate esperienze con le ragazzine che passavano per la cantina. Verso sera alla chiusura era normale che una di loro rimanesse ad ammirare i quadri e collaudare la comodità dei divani. Un ricordo particolarmente delicato per la sua dolcezza fu Hiromi una ragazzina giapponese, non seppi mai come o con chi capitò lì quella domenica pomeriggio. Ballai solo con lei, parlava il classico italiano degli orientali, sostituendo l’elle all’erre. Era morbida e si lasciava abbracciare e sbaciucchiare sul collo, quando tutti se ne stavano andando, la vidi esitare nell’infilarsi il cappotto, mi guardava come per capire perché non le avessi ancora chiesto di fermarsi. La raggiunsi, riappesi il suo giaccone e chiusi a chiave la porta. Eravamo soli, finalmente ci baciammo dolcemente ed a lungo sul fatidico divano. Sarebbe stato banale confondere la sua arrendevolezza con la passività di una ragazzina sottomessa, era invece una dolcezza carica di trasporto e di piacere nel dare piacere. Si lasciò spogliare della gonna e delle mutandine, m’inginocchiai fra le sue gambe ammirandone il candore e la morbidezza dei peli lisci e lunghi del suo sesso e come la mia lingua le accarezzò il clitoride, ebbe un orgasmo stranissimo e quasi immediato, mugolii e versetti simili a un pianto sommesso, come una sofferenza appena percepibile. Rimasi imbarazzato pensando di aver sbagliato qualcosa, ma le sue piccole mani che si posarono sulla mia testa spingendola di nuovo sul suo sesso e la rilassatezza del suo corpo che ne seguì furono la conferma del piacere provato. Mi chiese di aspettare prima di fare l’amore perché l’orgasmo l’aveva appagata, ma quando entrai in lei, riprese immediatamente il piacevole mugolio che durò fino a quando non terminai io, senza aver capito se per tutto il tempo avesse continuato a godere.

Nessun commento:

Posta un commento

Un invito ai lettori: i vostri commenti e opinioni sono una gratificazione per chi scrive il blog, mi farebbe piacere riceverne molti e avere lettori che si uniscono al blog cliccando su UNISCITI e seguendo il semplice percorso. Il sogno sarebbe creare una rete anonima di amici/lettori con i quali interagire virtulamente.