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martedì 27 gennaio 2009





Ornella

La conquista della patente automobilistica non coincise con il possedere una vettura, ma stabilì fra me e mio padre una nuova e simpatica complicità. Lui era gelosissimo della sua Fiat 1500 bianca interno in sky rosso e mi era permesso usarla solo con lui al fianco, sopportando una sequela di consigli e raccomandazioni tali da togliere ogni piacere alla guida. Inutilmente avevo chiesto di prestarmela per uscire alla sera con gli amici: il no era categorico. In quel periodo avevo scoperto un simpatico giro con le commesse della Rinascente, c’era una certa disponibilità al dialogo mentre erano dietro i banconi e una buona possibilità di aspettarle all’uscita di via Santa Redegonda. La prospettiva poi di accompagnarle a casa era vincolata al presentarsi al volante di una vettura, più era sportiva e più le commesse che vi salivano erano carine. Direttamente proporzionale. Avevo conosciuto Ornella, commessa al reparto tessuti. 25 enne certamente bella e l’attesi a piedi all’uscita. Evidentemente non ero il solito furbacchione tampinatore di commesse, già pronto con l’auto ad aspettarle. Passeggiammo fino a casa sua, i genitori avevano una portineria in via Terraggio, mi diede il numero di telefono e ci rivedemmo la domenica seguente per un film. Nelle ultime file del cinema Gloria, occupate anche da altre coppiette, riuscimmo a scambiarci acrobatiche manipolazioni sotto una impalcatura fatta dai cappotti. Era la premessa di un incontro di altissimo livello, realizzabile però all’interno di una comoda vettura. Come fare? Amici tanto altruisti da prestarmi l’auto? Neanche a pensarlo. Alla sera mentre mia madre era in cucina, mi avvicinai a mio padre con l’aria di un cane abbacchiato e dissi: ” Papà dovrei uscire con una ragazza molto carina e mi servirebbe proprio la macchina !” L’avevo detto tutto d’un fiato e già mi aspettavo un secco NO, quando mio padre andò in anticamera prese le chiavi dell’auto e me le diede senza dire una parola. Avevo toccato il tasto giusto. La donna. Ornella, sulla riva del Ticino a Vigevano, collaudò i reclinabili paterni e mi regalò il primo amplesso in un’auto. Quell’alcova mobile diventerà silenziosa complice delle scopate d’intere generazioni di giovani e meno giovani. Le occasioni per chiedere l’auto a mio padre furono frequenti e mi resi conto simpaticamente di quanto fossero facilitate le risposte affermative ogni volta che pronunciavo la frase magica: Papà avrei una ragazza nuova da portar fuori. Quel “nuova “ era la chiave magica che apriva la sua complicità. Purtroppo da giovani si sbaglia spesso ed io ero giovane. Affascinato dall’ebbrezza provocata dal bere alcolici. Alle feste o nei locali frequentati bevevo abbondantemente con grave alterazione della mia capacità di parcheggiare automobili e una aumentata abilità invece nello strisciarle contro pali e paracarri. La Fiat 1500 bianca soffriva, mio padre ancora di più ed io mi trovai presto senza auto, mi salvò da una crisi esistenziale un prestito di mia madre che mi permise di acquistare una 500 seminuova, il mitico “Cinquino”. Non aveva la comodità della 1500 ma era pur sempre un tetto sulla testa e soprattutto su due sedili ribaltabili. La benzina costava 120 lire e con cinquecento lire giravo due giorni. Con i primi soldi arrivati da una infinità di lavori intrapresi avendo lasciato il Liceo ed iscrittomi contemporaneamente alla scuola serale di Grafica Pubblicitaria, iniziai una lenta, ma inesorabile personalizzazione della mia vetturetta. Sospensioni abbassate, cerchi allargati e un motore elaborato Abarth. Velocità 140 chilometri, allora.

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